A Monza una mostra segue
Enrico Cernuschi nel suo viaggio

Nell’incanto di un

Oriente ormai perduto


A Parigi c’è un museo che porta il suo nome. E’ il Musée Cernuschi, che raccoglie i pezzi della collezione di arte dell’Estremo Oriente che Enrico Cernuschi (1821-1896), nato a Milano da padre monzese, raccolse nel suo viaggio in Asia tra il 1871 e il 1873. Ad accompagnarlo c’era Théodore Duret, amico di Edouard Manet e mecenate degli impressionisti, che pubblicherà nel 1874 il suo Voyage en Asie. Ben più di un semplice diario di viaggio, il libro di Duret è una consapevole dichiarazione della scomparsa del Giappone autentico, del Giappone giapponese. 
Il Sol Levante, il cui isolamento era stato nel 1854 infranto a cannonate dal commodoro statunitense Perry, si apriva all’Occidente, e l’Occidente imparava a conoscere ed amare la sua raffinata arte. Per prima la Francia, paese in cui cresceva il fermento colorato dell’Impressionismo, aveva apprezzato quel verbo artistico così antico eppure mirabilmente elegante e attuale. 
Le stampe ukiyo-e e tutti gli oggetti dell’artigianato giapponese divennero ricercatissimi da collezionisti ed artisti; Manet, Monet, Van Gogh avevano delle proprie raccolte di pezzi d’arte orientale. Fu il japonisme, tutti pazzi per l’Oriente. Senza aver mai viaggiato in quelle terre. Ma i limiti costruiti dallo spazio appartengono agli uomini, non agli artisti. Così Van Gogh scriveva da Arles al fratello Theo che "i giapponesi vivono come fiori nella natura". Il Giappone che aveva conosciuto l’artista olandese era solo quello inciso nelle stampe o dipinto sui ventagli che qualche mercante d’arte aveva venduto. Eppure aveva scritto una profonda verità, una verità che e’ stato il solo a cogliere mentre era nel sole della Provenza, un sole così lontano da quello che iniziava a tramontare nel Giappone di epoca Meiji percorso da commercianti e viaggiatori occidentali. 
Tra questi turisti erano anche Enrico Cernuschi, finanziere italiano da anni trasferitosi a Parigi, e Duret. Ma il loro non fu un viaggio di semplice scoperta di un mondo fino allora inaccessibile e remoto. Il loro fu soprattutto il cammino nella caduta di un Impero che vendeva arte e anima all’Ovest. In tutto il paese, soprattutto nella cosmopolita Yokohama, il porto dove per primi entrarono i commerci occidentali, si aprivano botteghe di souvenir e lo stile dell’artigianato nipponico si faceva meno autentico, con l’imitazione magari di modelli cinesi pur di soddisfare la sete di esotico degli stranieri. In Giappone c’era una gran voglia di seppellire il proprio passato, di rubare costumi e vestiti agli uomini venuti dall’Ovest, di imitarli nelle abitudini e nei modi di fare. E si vendevano opere d’arte di ogni genere a prezzi stracciati, potevano acquistarsi a buon mercato statue del Buddha di templi ormai in rovina, tutti pezzi che finivano nelle case dei ricchi europei che li esponevano nelle loro case come trofei dell’ultimo impero conquistato. 
Con tutt’altra idea Cernuschi mise insieme i preziosi pezzi della sua collezione di arte orientale. Il suo fu un progetto coerente di collezione artistica con la creazione di un museo nella Parigi di seconda metà ottocento, quando forte era l’attrazione per la cultura orientale, giapponese in particolare. Nacque così il Musée Cernuschi, i cui oggetti più belli è possibile ammirare in questi giorni nella mostra Viaggio in Oriente. L’avventura di Enrico Cernuschi (1821-1896) patriota, finanziere, collezionista, al Serrone della Villa Reale di Monza. Dai vasi e animali di bronzo di tarda epoca Edo-Tokugawa (XVIII-XIX sec.) agli album di disegni dipinti e stampe di Hokusai e Kuniyoshi, dal paravento che rappresenta l’arrivo dell’ambasceria coreana a Edo, l’odierna Tokyo, alle ceramiche dai delicati colori e forme, la collezione Cernuschi riesce a offrire il sapore delicato e originale della manifattura degli artisti giapponesi. 
Come il petalo che si stacca dal fiore di loto nella destra del Buddha assiso o come le pupille di luce viva della tigre appartenuta all’attrice Sarah Bernhardt, l’arte del Giappone è fatta di particolari, di lucenti piccolezze che bisogna osservare nel profondo per coglierne l’emozione. Così gli occhi rosso fiamma di un okimono (置物) - statuetta zoomorfa da offrire ai kami - a forma di lepre si uniscono alla figura appena suggerita dell’animale, così il profilo astratto e perfetto del vaso di fiori, attuale come una creazione di un designer moderno, è lacerata dai morsi di uno scarabeo anch’esso di bronzo. In questo legame inscindibile tra reale e ideale, tra modello e simbolo, 
che dà vita quasi ad una dimensione distante dove convivono sogno e realismo, può forse cogliersi lo spirito naturale dell’arte del Sol Levante. Quell’arte che Van Gogh e gli artisti europei di fine ottocento sentivano così vicina pur nella lontananza geografica che diveniva sempre più breve, al moltiplicarsi dei rapporti tra Occidente ed Oriente. 
E il Giappone si avvicinava sempre più all’Europa, i samurai cedevano le armi ai mercanti d’arte per vestire comodi abiti della borghesia occidentale, le giunche erano lasciate alla muffa nei porti al diffondersi delle imbarcazioni a vapore. Chi cercava l’antico Oriente ritrovava il nuovo Occidente. Duret scriveva con dolore che il vecchio Giappone pittoresco, il Giappone giapponese se ne va, e, tra 25 anni, le persone venute dall'Europa andranno alla sua ricerca senza trovarlo. E noi siamo gli ultimi viaggiatori di un Giappone che non c’è più.

(Images courtesy Musée Cernuschi Paris www.cernuschi.paris.fr
and Serrone della Villa Reale Monza)
Floriano Terrano

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